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Venerdì 23 ottobre, aeroporto di Malaga.

Siamo in anticipo per il volo Ryanair che deve portarci a Bologna. Fa caldo, ci sono milioni di persone e il numero della nostra gate non è ancora sul monitor. Per passare il tempo apro il mio kindle e riprendo la lettura de “I Miserabili”, un classicone di mille pagine a 0,40 centesimi. Le vicissitudini di Jean Valjean e Cosetta mi sono note, ma non mi annoiano, perché adoro l’epopea della perdizione e del riscatto in tutte le sue forme, anche se un po’ troppo condita di provvidenza divina come in Victor Hugo.

Mentre sono immersa in questi pensieri alzo gli occhi per vedere se, finalmente, appare il numero della nostra porta. Niente. Un nugolo di persone ruota attorno al monitor, la metà dei voli in partenza infatti è ancora senza gate. Il mio sguardo viene attratto, fra gli altri, da un personaggio che svetta, non solo per altezza: un metro e novanta, magrissimo, fra i 40 e i 50 anni, capelli ricci, neri con tanti fili bianchi ribelli, lunghi fino a metà schiena. L’acconciatura è tipicamente rasta: ricci cotonati e arrotolati, a formare una massa di peli infeltrita. Anche la barba è lunga, ma intrecciata in un solo, mefistofelico, boccolo crespo. Sulle spalle porta uno zaino da pochi euro, di stoffa, dai colori sgargianti e colmo di roba. Sembra un barbone, di quelli che girano con i loro averi su un carrello della spesa. Una specie di punkabbestia, senza cani al seguito. Immagino che puzzi, che sia un alcolizzato, che abbia un mucchio di problemi. Mi chiedo cosa faccia in aeroporto un tipo così, forse rovista nella spazzatura alla ricerca di qualche ghiotto avanzo, ma allora perché studia le partenze? Vorrà imbarcarsi? Compatisco chi se lo troverà sul volo. Fortunatamente ci sono mille destinazioni dove può andare, non corro grandi rischi.

“Guarda quello – dico a mio marito – che soggetto raccomandabile”. La mia dolce metà, che non parla mai male di nessuno, risponde soltanto: “È comparsa la gate, andiamo.”

D43. Ci guardiamo intorno cercando di capire che direzione prendere e ci accorgiamo di essere seduti proprio davanti alla nostra uscita. Una fortuna insperabile! 

Ci mettiamo in fila e in un attimo la coda diventa incredibilmente lunga. Vedo una signora che cerca di passarci davanti e subito la blocco, come un gendarme che coglie il ladro con la refurtiva in mano. Altolà, di qui non si passa. Sono un vero mastino, mantengo la posizione e passettino dopo passettino porto mio marito (un po’ imbarazzato) verso l’aereo. Non dovremo stivare il nostro bagaglio a mano, come ci è capitato all’andata ed è merito mio, Marco, mio marito, dovrà essermi grato. 

In vista della meta do un’ultima occhiata al cielo, alzo lo sguardo ma una figura allampanata mi oscura il sole: è il senzatetto metropolitano di pochi minuti fa. No, incredibile, è sul nostro volo. Ancora una volta provo compassione per chi se lo troverà vicino, non vorrei proprio essere al suo posto. Finalmente la scaletta: il mio bagaglio è piccolo, ma pesante, abbasso gli occhi e mi concentro sugli scalini. Siamo dentro, mi sento di buonumore, ho prenotato per tempo due ottimi posti: fila 10, “D” per Marco, vicino al finestrino, “E” per me. Fila, 6, 7, 8, 9… Fila 10, al posto F, accanto al mio, fianco a fianco, c’è LUI: il clochard, il capellone, il vagabondo, il senza fissadimora, l’homeless, il barbone, l’incubo di ogni passeggero. Gli lancio uno sguardo assassino, dall’alto al basso (è seduto) e senza badare troppo alla buona educazione esclamo: “No! Non ci credo!”. 

Nello stesso momento lui appoggia su di me uno sguardo dolcissimo e pieno di comprensione. È ovvio, sa di non avere un aspetto invitante!

Prima guarda me, poi guarda il mio bagaglio. Si alza in piedi, prende il suo zaino dalla cappelliera piena, lo posa sotto il suo sedile e mi indica con la mano lo spazio libero, accanto alla valigetta di mio marito. Il gesto di cortesia mi colpisce, ne approfitto, ringrazio, ma diffido, gli sorrido, ma non voglio firmare nessuna tregua. 

Primo: avrà i pidocchi in quella massa di ricci arruffati? E quanto ci metteranno a scegliere come dimora i miei bei capelli curati?

Secondo: come potrò fronteggiare il suo temibile odore? 

Terzo: come potrò sopportare per tre ore la vista delle sue unghie lunghissime e sporche? Nere come il carbone, laddove dovrebbero essere bianche.

Mi siedo e lancio uno sguardo furtivo alla sua chioma leonina, fortunatamente non vedo insetti indaffarati. Il primo scoglio è superato. Allora comincio a scrutare meglio il suo profilo aquilino, le guance incavate, gli occhi neri e profondi. Sembra un essere umano e direi che non puzza. Meno male. Le unghie però sono mostruose.

Nel frattempo davanti a noi arriva una bella e tornita ragazza spagnola. La sua poltroncina è vicino al finestrino, dove siede un anziano che, a malincuore, è pronto a cederle l’ambita collocazione. La ragazza gli fa cenno di non spostarsi, la fila esterna va altrettanto bene, nel mentre si gira e scambia col mio vicino uno sguardo d’intesa. O così mi sembra.

La mia testa riparte in mille congetture: sono terroristi, dirotteranno l’aereo e si sono seduti l’uno dietro l’altro per compiere l’azione più repentinamente. Oppure nello zaino dell’homeless c’è una bomba e loro hanno pietà dei vicini che salteranno in aria per primi. Oppure sono angeli della morte inviati da qualche Dio misterioso. 

Mi giro di nuovo verso colui che da almeno un’ora calamita il mio sguardo alla ricerca di conferme: ha un paio di pantaloni di tela, scarpe blu sportive, coi lacci bianchi, una camicia colorata e un giubbotto di jeans, azzurro pallido, consunto. Non sembra la divisa di un terrorista. Ho un’intuizione: “È un cantante rock?”  Lui sorride, dev’essere abituato alla curiosità del prossimo e fa cenno di no col capo. Ha uno sguardo pieno di consapevolezza e fissa sempre un punto lontano. La sua bonomia, comincia a conquistarmi, ma voglio ancora resistere. Potrei interrogarlo ancora: é un seguace del rastafarianesimo? un nuovo Bob Marley? un ex alcolista redento? un missionario? un ex galeotto? un miliardario bizzarro? un senzatetto metropolitano?

Chiedo? Non chiedo? Chiedo? Non chiedo? Non chiedo.  Non posso importunare uno sconosciuto solo perché sembra uno che dorme sotto i portici.  Mi rassegno abbasso lo sguardo e apro il mio libro, riprendendo la lettura dei Miserabili che, a questo punto, mi sembra profetica. 

Il volo procede regolarmente. Ho sete, prendo un the caldo coi biscottini, 4,50 euro. Una rapina. Ho l’impressione che l’uomo del mistero la pensi come me.

Non faccio in tempo a portare il bicchiere alla bocca, che una turbolenza fa tremare tutto. Chiedo alla hostess se può portarmi via un po’ di roba che ho sul tavolo. Non può. Allora il gentleman sotto mentite spoglie apre il tavolinetto sulle sue belle e lunghe gambe e mi offre di appoggiare quello che voglio da lui. Non oso, ma ormai le mie difese sono vinte. Azzardo un’altra domanda: “È straniero?”

“Si, brasileiro” risponde laconico, sempre con lo stesso sorriso ineffabile, ma tollerante verso il prossimo.

“È stato un lungo viaggio.”

“Si”, ammette con un sospiro.

Il mio ristoro comprende un the e due biscotti ancora chiusi nella carta. Gliene offro uno, questo vuole dire che sono disposta a lasciargli mettere i suoi artigli neri sui miei biscottini incontaminati. È un grande passo per me. Fortunatamente rifiuta. 

Riprendo la lettura, bevo il the, mangio i biscotti e dopo una mezzoretta la hostess porta via tutto. Mi accorgo che lui ha tenuto aperto il tavolinetto tutto questo tempo per darmi l’opportunità di usarlo e lo chiude solo quando non ne ho sicuramente più bisogno. 

Sono totalmente e radicalmente conquistata.

Lo osservo ancora, con lo sguardo dei bambini che scoprono il mondo, trovandolo curioso e affascinante.

Ora le sue unghie lunghe e nere, come quelle che vediamo tante volte in chi chiede l’elemosina nelle nostre strade, mi fanno tenerezza. La sua povertà mi sembra piena di dignità e persino di bellezza, come quella dei protagonisti di “Miracolo a Le Havre ”, lo splendido film di Aki Kaurismaki.

Se Gesù Cristo scendesse fra noi oggi sarebbe così: dignitoso, povero, buono, regale. 

Le turbolenze aumentano e l’aereo traballa sempre di più. Ho paura e come sempre in questi casi smetto di trastullarmi con i miei laici dubbi sull’esistenza di Dio e prego. Non si sa mai. In aereo, fra le nuvole, soprattutto durante le turbolenze, pregare mi sembra un’ottima occupazione. Oltretutto sono circondata da due angeli: mio marito a destra, lo sconosciuto a sinistra. Non c’è da aver paura di morire e poi sarà per un’altra volta perché dal finestrino vedo le luci della città, il cielo è sereno, stiamo atterrando. 

L’avventura è finita, credevo sarebbe stata un incubo, invece è stata un sogno. Lo sconosciuto, dopo aver aiutato il vecchietto di fronte (che lo ricambia con un’occhiata sospettosa), si dilegua. Scomparso, sparito, volato via. Però non posso dire che e ne sia andato senza  lasciare traccia di sé, anzi. In poche ore il mio sguardo è radicalmente cambiato: alla partenza andava dall’alto in basso, era classista e prevenuto; all’arrivo va dal basso all’alto, come quello di un fanciullo che mette fiducioso la mano in chi gli mostra amore.

Dovrò ricordamelo anche quando tengo i piedi ben saldi per terra, anche quando una signora cerca di passarmi davanti in fila. No, forse non fino a questo punto.

Maria Teresa Scorzoni per malacopia

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Fotografia di Enrico Frezza