Al cinema Lumière, nell’ambito della programmazione della Cineteca di Bologna, sabato 9 gennaio ho assistito alla proiezione della copia restaurata di “Uomini di domenica” (Menschen am Sonntag, Germania/1930) di Robert Siodmak ed Edgar G. Ulmer. Una coraggiosa e motivata decina di persone hanno deciso di passarsi il claudiobaglionesco sabato pomeriggio in modo insolito, in compagnia di un film muto del 1930 con accompagnamento musicale dal vivo, composto e eseguito al pianoforte da Daniele Furlati.

Si tratta del film d’esordio di Siodmak, di cui non v’è traccia nel Mereghetti (da cui, ahimè, non posso neanche copiare uno straccio di recensione). Vede tra gli sceneggiatori un uno-qualunque come Billy Wilder, tanto per dire la qualità del cast tecnico, e ha come centro della narrazione la città di Berlino degli anni ’30 in un tipico weekend estivo.

La scelta dei protagonisti è significativa: si tratta di “gente comune” che, dopo le riprese, è ritornata a fare quello che faceva prima: tassista, rappresentante, comparsa cinematografica, commessa, modella. Non ingaggiare attori professionisti diventerà un canone estetico anch’esso (buongiorno, Pasolini!), ma personalmente non ricordo di aver visto film di quell’epoca interpretati da non –professionisti. Devo aggiungere soprattutto che quello che mi è saltato all’occhio è il cambiamento antropologico nelle facce e nei corpi. Cosa sono riuscite a fare la cosmesi, la cura dell’estetica e soprattutto l’ortodonzia in meno di un secolo! Volti antichi e “passati”, molto più dei vestiti che le persone indossano, si stagliano sullo schermo. La moda dell’anatomia è più sconvolgente della moda dell’abito longuette o del costume da bagno intero, a cui ci hanno abituato i divi di Hollywood! Nella carrellata di foto finali sulla spiaggia del lago, dove i berlinesi passavano il fine settimana, spiccano, direi quasi, brillano, sorrisi che adesso definiremmo horror, tra denti brutti, storti, non proprio bianchi, e monocigli, baffi femminili, silhouette non da silfidi e tutta una carrellata di particolari che oggi troveremmo imbarazzanti. Che bello, invece, ritrovare sullo schermo questa Germania vera, e non fictionissime valchirie o angeli azzurri!

E poi è uno di quei film che non parla di niente, in realtà, ma lo fa in un modo che alla fine ti racconta qualcosa della vita. Anche e soprattutto qualcosa della tua vita: ad esempio lo scarto antropologico che stai osservando, e ti incuriosisce, non ha valore, perché ti sembra di afferrare infine l’universalità della condizione umana. Ossia, che sia un operaio o un impiegato, ognuno di noi fa qualcosa durante la settimana e passa la maggior parte del tempo nella routine professionale e si definisce in base a quella; poi, nel weekend, finalmente smette la divisa e prova a vivere. I berlinesi andavano, e forse ci vanno ancora, al lago, e nascono nuovi amori, gelosie, amicizie e tutto passa nell’attesa del successivo fine settimana.

Tutto qui? Sì, oltre al fatto che se penso alla Berlino del’30 mi sovviene l’avvento del nazismo. I film su quell’epoca, che parlano di quegli avvenimenti,  cercano di spiegarne il perché, lo suggeriscono o lo evocano, soffocando, a mio parere, la dimensione del vivere quotidiano sotto la lente della dimensione storica o ideologica. Questo film invece racconta la normalità, quasi banale, di una bella giornata estiva per un berlinese qualunque con un tocco minimalista e leggero – e, a questo proposito, non si può fare a meno di elogiare Daniele Furlati, che ha eseguito al piano una musica di stampo impressionista, genere Satie.

Nicole Pilotto

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