Una retrospettiva del fotografo Gianni Berengo Gardin non è una mostra fotografica, è un viaggio antropologico. E lo dico candide-amente nel migliore dei modi possibili: la sua cifra non è l’accademismo di un trattato sociologico, ma un’immersione viva ed empatica nella realtà che il fotografo sceglie di osservare. Di realtà ne ha impresse molte, lavorando per vari periodici, per l’agenzia Contrasto, per il Touring Club. Nelle foto troviamo città come New York, Parigi, Venezia. Ma anche un’Italia non famosa né turistica come le risaie di Vercelli, la nebbia di Luzzara e la processione dei “Misteri” di Campobasso.

Ci sono paesaggi che, anche quando non prevedono l’elemento umano, sono definiti in base ad esso. L’accompagnamento sinuoso della strada collinare toscana, incorniciata dai cipressi, può essere materiale da cartolina vacanziera dai colori improbabili ma quando diventa soggetto delle foto di Berengo, del suo personale bianco e nero, ritorna etimologicamente al suo significato originario. Che è quello di una natura fortemente antropizzata per la presenza del cipresso non autoctono, del campo arato alla perfezione in modo coreografico, dalla cui visione lo spettatore riesce a sentire lo sforzo fisico della costruzione in una perfetta simbiosi di cultura e natura, muscoli e sapienza contadina tramandata nei secoli.

Descrivere tutte le foto/impressions di Berengo sarebbe impossibile, e sceglierne alcune invece che altre può essere solo un atto parziale e soggettivo. Nella mostra, ci sono sezioni tematiche.

C’è il lavoro “Morire di classe” sui manicomi pre-legge Basaglia, dove nelle ripetute scene di camicie di forza e capelli tagliati a zero è evidente il senso di strutture concepite come luoghi-contenitori senza qualsivoglia pratica terapeutica.

C’è poi la rassegna sui campi rom di Palermo, in cui spiccano la foto della vecchia accanto ad un arazzo raffigurante un Gesù che è vestito uguale a lei e quella dei bambini con sguardo di sfida abbigliati da capi adulti del territorio.

C’è anche “i baci”, nell’ambito della quale sono rimasta colpita da una foto di Milano raffigurante l’espressione scandalizzata di una sciura milanese con barboncino altrettanto nauseato di fronte al bacio appassionato di una coppia riversa sul marciapiede, che vale l’intera mostra.

Nella sezione “religiosità”, i “Misteri” di Campobasso – processioni di origine medievale con carri allegorici e tableaux vivants che si rifanno alla Bibbia – potrebbero essere ambientati in una qualsivoglia città “latina”, barocca e surreale, in Spagna o derivati,con le persone, travestite da angeli, sospese in aria. Capisci così perché Dalì o il cinema onirico di Guillermo del Toro non avrebbero mai potuto nascere in Scandinavia.

Mi ripeto, correggendomi: alla fine si esce dalla mostra non solo con la sensazione di aver viaggiato e visto molte esperienze di vita ma anche con quella di non veder l’ora di partire di nuovo… e non certo per il villaggio vac(c)anza preconfezionato!

Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo”. CASA DEI TRE OCI – Venezia Giudecca Dal: 01-02-2013 Al: 12-05-2013 www.treoci.org

Nicole Pilotto

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