La prima volta che ho visto il Macbeth di Verdi è stato una quindicina d’anni fa all’Arena di Verona, per la regia di Pier Luigi Pizzi. Mi ricordo il trionfo di neri e rossi, le torri altissime, le danze delle streghe che invadevano il palco anche in scene in cui non erano previste, un efferato grand guignol extra dark che nutriva i cuori di espressione.

È con questo vivo ricordo che sono andata martedì 12 gennaio a vedere il Macbeth al Comunale di Bologna, prima opera in allestimento del 2013, per la regia di Robert Wilson.

Premetto: sono una novellina. Non conoscevo il lavoro di Wilson. Mi sono quindi ritrovata sulle montagne russe tra l’allestimento dell’Arena e il minimalismo (è un accrescitivo) formale dell’allestimento del regista americano. Praticamente l’alfa e l’omega, l’eros (sicuramente solo) del primo e il thanatos asettico del secondo.

Soprattutto all’inizio, l’entrata delle streghe incappucciate senza volto con uno specchio in mano (suppongo) circolare e stellato, è l’unica presenza “materiale” nella scena, mentre a determinare spazi e tempi sono “solo” i giochi di luce, che comprendono il fondale cangiante con i fulmini al neon. Nello sviluppo successivo dell’opera, sia per la presenza di personaggi, a cui la luce bianca accentua la specificità espressiva del volto, sia per richiami visivi interessanti, come il corteo reale con i giocolieri, o come gli uomini-animali stile Fussli, fanno timido capolino una sorta di “movimento” e di lontano richiamo a qualche tipo di sentimento – che poteva essere benissimo anche il solo “fascino dell’orrendo”.

Ma lo stile è caratterizzato senza dubbio dall’assenza, dalla reductio ad unum, grazie alle geometrie dei movimenti (corteo reale che procede per rette perpendicolari) ai fondali illuminati, agli oggetti calati dall’alto al posto dei personaggi (il fantasma di Banco impersonato da una sedia vuota, i fantasmi-fantocci dei re che verranno, tutti uguali), all’omologazione della folla, siano essi cortigiani o streghe o sicari. E qual è l’unum? L’antiespressionismo, la metafisica, praticamente Verdi in rivolta contro se stesso: togliere il melodramma al melodramma, il romanticismo al romanticismo, la psicologia ai caratteri.

È paradossale, in un certo senso, Robert Wilson che incontra Verdi e gli annienta l’anima. Le armi del delitto che impugna sono la mimica e la prossemica dei personaggi principali, la cui interpretazione non è di immediata ricezione (come tutto lo spettacolo, del resto, che richiede assolutamente un’elaborazione intellettuale). Come si muove questa Lady Macbeth, esatta copia della strega di Biancaneve (Walt Disney, 1937)? Giocando all’associazione di idee, viene in mente il teatro delle marionette, il thai chi e le arti marziali, con le figure puntate al terreno come le danzatrici ieratiche dei carillions. Hanno la compassata e lenta cadenza adatta ad un teatro di maschere giapponesi, e l’isola nipponica mi sembra, infine, la vera ambientazione concettuale di questo Verdi.

Altro che Lady Macbeth! Siamo nei pressi dell’eleganza perfetta di una Turandot. Non voglio difendere Zeffirelli e i suoi melodrammi nazionalpopolari, sono d’accordo che in un’opera non c’è solo un’intentio auctoris ma anche (e soprattutto) un’intentio operis e quindi apprezzo la volontà di ricercare nuove interpretazioni e nuove riletture. Non posso però certamente negare che alla fine di questo spettacolo weird e straniante ho portato negli occhi forse curiosità intellettuale e nel cuore solo la musica e il canto, che mi hanno emozionato oltre ogni misura, nella strepitosa interpretazione dei professionisti diretti da Roberto Abbado.

 

 Nicole Pilotto

for malacopia

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