Malacopia_ Reyhaneh_2Sabato 25 ottobre mentre in Italia “ballavamo con le stelle” e Renzi faceva spallucce alla Cgil, mentre a Dallas due infermiere guarivano dall’ebola e nel Regno Unito si trovava del petrolio vicino a Gatwick, mentre Elisabetta II cinguettava per la prima volta un suo regale tweet e in Israele ebrei e palestinesi continuavano a darsele di santa ragione, quello stesso giorno nel carcere di Teheran veniva impiccata Reyhaneh Jabbari, una ragazza iraniana di 26 anni. 

Quell’evento è una goccia nel mare delle notizie, ma è quella che fa traboccare il vaso della nostra disattenzione, è il confine oltre il quale non possiamo più restare indifferenti. Per quanto viviamo lontani dal mondo, immersi nel nostro formicaio, intenti a trasportare briciole sempre più pesanti per boccucce sempre più insaziabili, dobbiamo fermarci un momento, perché il nostro cuore ce lo impone.

Reyhaneh Jabbari era detenuta da 7 anni, processata e condannata per aver ucciso Morteza Abdolali Sarbandi, un medico di 47 anni che aveva lavorato per l’intelligence iraniana.

La cronaca riferisce che la 19enne avrebbe accoltellato la sua vittima alla schiena con un temperino comprato due giorni prima, dopo o durante (non è chiaro) un tentativo di stupro. Il fatto sarebbe avvenuto nella casa di lui, dove Reyhaneh era stata invitata come arredatrice. Arrestata quasi subito, la giovane veniva messa in cella di isolamento per due mesi, senza poter consultare un avvocato. Secondo varie fonti, Reyhaneh Jabbari sarebbe stata torturata, indotta a confessare e da quel momento precipitata in una spirale di orrore fino alla morte. A nulla sarebbero valse le sue spiegazioni, a nulla la chiamata in causa di un secondo uomo che avrebbe sferrato il colpo mortale, a nulla gli appelli internazionali. 

A Reyhaneh è stata offerta, dal figlio della vittima, una sola via per salvarsi la vita: chiedere perdono e ritrattare, dire pubblicamente che il medico-spia non aveva mai cercato di violentarla.

Lei non ha voluto farlo e l’inflessibile figlio ha sferrato il calcio allo sgabello che la sorreggeva, perché il nodo scorsoio facesse il suo sporco lavoro.

Reyhaneh ha preferito morire pur di restare fedele a sé stessa, pur di conservare integra la sua dignità.

Dal momento che in questo spazio ospitamo storie di regine vere, crediamo che questa sia una di quelle storie.

Reyhaneh era una piccola, giovane donna, eppure era una Regina, immensamente più grande e matura di quel regime che l’ha uccisa. E questo è vero persino se fosse stata colpevole.

Fra le nostre briciole di pane, siamo costretti ora a digerire questo macigno, che le nostre fragili spalle di formiche non reggono e che il nostro apparato digerente non può smaltire. Questo peso resterà, per fortuna, perché servirà a tenere sveglia una coscienza sempre sul punto di assopirsi.

Infine non ci resta che ricordarla, come hanno fatto tanti altri, pubblicando il testamento lasciato alla madre con un messaggio vocale:  

Cara Sholeh, oggi ho appreso che ora è il mio turno di affrontare la Qisas (la legge del taglione del regime iraniano). Mi ferisce che tu stessa non mi abbia fatto sapere che ero arrivata all’ultima pagina del libro della mia vita. Non credi avrei dovuto saperlo? Lo sai quanto mi vergogno perché sei triste. Perché non mi hai dato la possibilità di baciare la tua mano e quella di papà?

Il mondo mi ha concesso di vivere per 19 anni. Quella orribile notte io avrei dovuto essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in qualche angolo della città e dopo qualche giorno la polizia ti avrebbe portato all’obitorio per identificare il mio corpo e là avresti saputo che ero anche stata stuprata. L’assassino non sarebbe mai stato trovato, dato che noi non siamo ricchi e potenti come lui. Poi tu avresti continuato la tua vita soffrendo e vergognandoti e qualche anno dopo saresti morta per questa sofferenza e sarebbe andata così.

Ma con quel maledetto colpo la storia è cambiata. Il mio corpo non è stato gettato da qualche parte ma nella tomba della prigione di Evin e della sua sezione di isolamento. E ora nella prigione-tomba di Shahr-e Ray. Ma arrenditi al destino e non lamentarti. Tu sai bene che la morte non è la fine della vita.

Tu mi hai insegnato che si arriva in questo mondo per fare esperienza e imparare la lezione e che a ognuno che nasce viene messa una responsabilità sulle spalle. Ho imparato che a volte bisogna lottare. Mi ricordo quando mi dicesti di quel vetturino che si mise a protestare contro l’uomo che mi stava frustando, ma che quello iniziò a dargli la frusta sulla testa e sul viso fino a che non era morto. Tu mi hai detto che per creare un valore si deve perseverare, anche se si muore.

Tu ci hai insegnato, quando andavamo a scuola, che si deve essere una signora di fronte alle discussioni e alle lamentele. Ti ricordi quanto notavi il modo in cui ci comportavamo? La tua esperienza era sbagliata. Quando è accaduto questo incidente, questi insegnamenti non mi hanno aiutato. Essere presentabile in tribunale mi ha fatto apparire come un’assassina a sangue freddo e una spietata criminale. Non ho versato lacrime. Non ho implorato. Non mi sono disperata, perché avevo fiducia nella legge.

Ma sono stata accusata di rimanere indifferente di fronte a un crimine. Lo sai, non uccidevo neanche le zanzare e gettavo via gli scarafaggi prendendoli dalle antenne e ora sono diventata un’assassina volontaria. Il modo in cui trattavo gli animali è stato interpretato come un comportamento mascolino e il giudice non si è neanche preoccupato di tenere in considerazione il fatto che all’epoca dell’incidente avevo le unghie lunghe e laccate.

Quant’è ottimista colui che si aspetta giustizia dai giudici! Il giudice non ha mai contestato  il fatto che le mie mani non sono ruvide come quelle di uno sportivo, specialmente un pugile. E questo paese per il quale tu hai piantato l’amore in me, non mi ha mai voluto e nessuno mi ha sostenuto quando sotto i colpi degli inquirenti gridavo e sentivo i termini più volgari. Quando ho perduto il mio ultimo segno di bellezza, rasandomi i capelli, sono stata ricompensata: 11 giorni in isolamento.

Cara Sholeh, non piangere per ciò che stai sentendo. Il primo giorno in cui alla stazione di polizia una vecchia agente zitella mi ha schiaffeggiato per le mie unghie, ho capito che la bellezza non viene ricercata in quest’epoca. La bellezza dell’aspetto, la bellezza dei pensieri e dei desideri, una bella scrittura, la bellezza degli occhi e della visione e persino la bellezza di una voce dolce.

Mia cara madre, la mia ideologia è cambiata e tu non ne sei responsabile. Le mie parole sono eterne e le affido tutte a qualcun altro, in modo che quando verrò giustiziata senza la tua presenza e senza che tu lo sappia, ti vengano consegnate. Ti lascio molto materiale manoscritto come mia eredità.

Però, prima della mia morte voglio qualcosa da te, qualcosa che mi devi dare con tutte le tue forze e in ogni modo possibile. In realtà è l’unica cosa che voglio da questo mondo, da questo paese e da te. So che avrai bisogno di tempo per questo. Perciò ti dirò una parte delle mie volontà presto. Ti prego non piangere e ascolta. Voglio che tu vada in tribunale e dica a tutti la mia richiesta. Non posso scrivere una simile lettera dalla prigione che venga approvata dal direttore della prigione. Perciò dovrai di nuovo soffrire per causa mia. E’ l’unica cosa per la quale, se implorerai, non mi arrabbierò anche se ti ho detto molte volte di non implorare per salvarmi dall’esecuzione.

Mia dolce madre, cara Sholeh, l’unica che mi è più cara della vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio nome, compratemi un mazzo di fiori, oppure pregate per me. Te lo dico dal profondo del mio cuore che non voglio avere una tomba dove tu andrai a piangere e a soffrire. Non voglio che tu ti vesta di nero per me. Fai di tutto per dimenticare i miei giorni difficili. Dammi al vento perché mi porti via.

Il mondo non ci ama. Non ha voluto che si compisse il mio destino. E ora mi arrendo a esso e abbraccio la morte. Perché di fronte al tribunale di Dio io accuserò gli ispettori, accuserò l’ispettore Shamlou, accuserò il giudice e i giudici della Corte Suprema che mi hanno picchiato mentre ero sveglia e non hanno smesso di minacciarmi. Nel tribunale del creatore accuserò il Dr. Farvandi, accuserò Qassem Shabani e tutti coloro che per ignoranza e con le loro bugie mi hanno fatto del male e hanno calpestato i mie diritti e non hanno prestato attenzione al fatto che a volte ciò che sembra vero è molto diverso dalla realtà.

Cara Sholeh dal cuore tenero, nell’altro mondo siamo tu ed io gli accusatori e gli altri gli accusati. Vediamo cosa vuole Dio. Vorrei abbracciarti fino alla morte. Ti voglio bene.

Reyhaneh

UnknowMalacopia_ Reyhaneh_1n“Reyhaneh Jabbari è la 382esima persona a essere giustiziata da quando il presidente Hassan Rohani ha assunto il potere il 4 giugno del 2013. Il Centro di documentazione dei diritti umani dell’Iran precisa che sono attualmente 967 le persone nel braccio della morte e che rischiano l’esecuzione. Secondo Amnesty International e Nessuno Tocchi Caino, però, molte delle esecuzioni in Iran avvengono in segreto e quindi il numero delle pene capitali eseguite potrebbe essere molto maggiore, ovvero pari a circa 700. L’Iran assume così il triste primato di primo Paese al mondo per esecuzioni capitali, dopo la Cina. La pena di morte in Iran è prevista per omicidio, adulterio, stupro, omosessualità, reati legati alla prostituzione, alla droga, blasfemia, «insulti al Profeta», estorsione, corruzione, contrabbando d’arte, terrorismo, rapina a mano armata”. (Da Il Tempo del 27/10/2014).

Maria Teresa Scorzoni per malacopia