La grande bellezza, di Paolo Sorrentino.

La-grande-bellezza1-480x330Proud to be italian. Ha vinto il Golden Globe, ha vinto l’Oscar, finalmente il ritorno del grande cinema d’autore. Lui ringrazia Fellini, e ti credo, visto che La grande bellezza è La dolce vita 2.0, e 8 e mezzo reloaded, insomma, un po’ come se Andrea Bocelli ringraziasse Puccini perché può cantare All’alba vincerò nelle pubblicità e tutto il mondo quando pensa alla lirica gli viene in mente Bocelli anziché Puccini. E fra poco lo sostituirà Francesco Renga, nella Considerazione Mondiale sulla Lirica.

I problemi, ne La Grande Bellezza, sono tanti. Dunque, il flavour felliniano: ci mettiamo il protagonista, Jep, che assomiglia veramente tanto a quello de La dolce vita, e Roma con la sua decadenza, e la supposta antinarratività, e gli squarci, più che scorci, onirici, oltre a mille citazioni – il vestito bianco con la camicia nera di Jep uguale uguale a quello de La dolce vita and so on. E, poi, la rappresentazione grottesca dell’Italietta intellettualoide e cafona è veramente la stessa che sta sotto gli occhi di tutti ogni giorno: quella di Dagospia, di Canale 5 pomeridiana, del banner verticale di Repubblica.it. Quindi, sì, hanno preso l’Oscar sia Sorrentino che Fellini ma negli anni ’60 avevamo Pinelli e Flaiano mentre qui lo scrittore occulto è Roberto D’Agostino, che a questo punto farebbe bene a fare coming out e chiedere la statuetta come miglior sceneggiatore.

582955_grande-bellezza-scena-hotPerché il film non riesce ad andare oltre a questa rappresentazione, la prende pari pari e ce la ripropone come il peperone, confezionando, attraverso una regia – diciamo – sapiente, una serie di videoclip che non stanno insieme (perché l’antinarratività si può fare, baby, ma bisogna saperla fare, e Sorrentino nu ja fa). Ma Lui è abile sicuramente, attraverso il suo solito gioco della musica, che non solo è accompagnamento ma elemento fondante dell’opera, al pari della sceneggiatura; la presenza della Città, la Capitale, tutt’altro che reale – vuota, metafisica – senza dubbio una bella cartolina d’autore, il tutto impacchettato con quel bel titolo paraculo de “La grande Bellezza”, direttamente pronto e servito per gli Oscar.

Penso però che un gran film, o un capolavoro, richiedano altro. Due film recenti, Wolf of Wall Street e La vita di Adele, sono stati criticati perché amorali, in quanto non c’è un giudizio forte del regista nel condannare la vita dissipata del protagonista in un caso mentre nell’altro Kechiche sembra non esserci, consegnandoci questa storia naif e ordinaria senza quasi “raccontarla”. MI pare che in entrambi i casi sia come se la regia “restasse indietro” dando al pubblico il compito di trovare un senso alle storie. Il soggetto de La grande bellezza, raccontare l’italia della decadenza, si pone con forza all’estremo opposto, perché dichiarare lo stato confusionale, asfittico e autoreferenziale dell’immaginario della visibilità, comune alla radical chic quanto al borgataro pregiudicato, è di per sé fortemente connotata. La_grande_bellazza__18_Ed è qui la posizione paracula del sorrentinismo: dove un grande regista avrebbe dovuto farne una visione personale, originale, nuova, Lui si è limitato ad attingere a quello che ci offre il campionario del trash, con il sarcasmo di cui siamo buoni tutti quando si critica la partita di calcio o la finale di Sanremo, per di più regalandoci risposte facili e consolatorie. Ci butta addosso dei personaggi macchiette e li abbandona: la radical chic, fra tutte, le cui contraddizioni vengono tematizzate in una discussione dal protagonista come in un elenco della spesa, dopodiché quel personaggio non lo incontriamo più, tranne in una scena accessoria due secondi alla fine.

Quello che non butta via – perché un film da Oscar deve essere pessimista, ma fino ad un certo punto – è la Grande Bruttezza della missionaria santa (anche qui, tanto brutta che pare studiata), perché alla demagogia del “sono tutti uguali” (echi di “grillismo” in un regista culto di sinistra??) si risponde con il solito francescanesimo dell’abbandono delle ricchezze e del mondo consumista, oppure con il lirismo degli fenicotteri all’alba (se non fosse che i fenicotteri digitali sono di un trash che ti scappa da ridere) e con il sogno dell’innocenza dell’amore di gioventù – che non ci possiamo credere, è proprio quello claudiobaglionesco del mare, il faro, la notte stellata, la gnocca da paura (poteva essere brutta?) che è vergine, e quindi corredata di vestito bianco (E qui ci viene il tuffo al cuore, a ricordare Claudia Cardinale con il simil vestito bianco, in 8 e mezzo, che però aveva quella voce sensuale là ed erano in macchina e Marcello la guardava e lei rideva come un uomo… E quello era un vero sogno).

sorrentino-globes_980x571Ecco, ci manca solo la frase di Celine all’inizio del film e il campionario della battuta è completo. Viene da chiedersi se in questa scelta dicotomica tra lo stereotipo bianco e quello nero il regista avrebbe potuto offrirci una storia, o una non-storia, magari più piccola e meno onnicomprensiva del tutto- senza- dire- niente, ma certo, a fare Mazzacurati non vinci l’Oscar, e purtroppo in Italia non siamo neanche lontanamente dalle parti dell’autenticità di certa cinematografia straniera – Farhadi, parlando di storie – né si ha il coraggio di portare fino in fondo la satira sociale, anche con cattiveria.

Nicole Pilotto… for malacopia