Donne social: oltre il selfie, c’è di più? Da Fosca a Naike Rivelli.

Malacopia_chat_facebook_LauraNaimoliL’estate sta finendo. Inizio patetico, sono d’accordo. Lasciatemelo passare però, ve ne prego, se non altro perché va parafrasando la canzone dei Righeria: senza di loro, gli anni ottanta non sarebbero stati decisamente gli stessi.

Più di un lontana da Malcopia: intollerabile! Ora, eccomi qua, a scrivere di getto: penna, calamaio, foglio bianco da riempire.

L’assenza è presto giustificata. Non è semplice scrivere delle umane vicende e la difficoltà aumenta esponenzialmente quando ci si accinge a scrivere di donne. Occorre sensibilità, giudizio, osservazione, studio.

Parliamo, dunque, di donne, di donne social.

Dicevo, l’estate sta finendo e col cazzo che tra un po’ ci si potrà selfare con tette in bella mostra. Per attirare l’attenzione dei maschietti, con l’uragano Gonzalo in arrivo, sarà necessario inventarsi qualcosa. Spolverare qualche neurone, ad esempio. Nel compulsivo saliscendi del ditino sul display dello smartphone, ci si imbatte in labbra carnose tinte di rosso fuoco, profonde scollature tra sinuosi promontori, golfi ed insenature che si dipanano lungo cosce sode ed abbronzate.

Sarà per colpa di quella Eva che, dopo essersi lasciata sedurre “dal più vile degli animali, un rettile”, così racconta la biblica vicenda Igino Ugo Tarchetti, se ne andava ancheggiando per l’Eden senza nemmeno una foglia di fico sulla…, solo per convincere quel pirla di Adamo a mordere la mela. Sarà colpa di quella Elena (di) Troia che fece perdere la testa a mezza Grecia, costringendo eroi leggendari a scannarsi come volgari villanzoni di taverna, dopo aver svuotato le botti stracolme del nettare sacro al dio Bacco.

Sarà che c’è una Messalina in ognuna di noi, che desidera d’essere desiderata, sopra ogni altra cosa. Sarà che la sindrome di Mata Hari fa più vittime dell’ebola, diffondendosi a macchia d’olio, di donna in donna, dalle strafighe dello showbiz, fino alle ragazze della porta accanto, a quelle che ti trovi sbattute sulla home di facebook a tutte le ore e in tutte le angolazioni, in penombra con la fioca luce dell’abat-jour, oppure ben visibili sotto la luce accecante del neon, nella toilette di un locale. E poco importa se sullo sfondo ci sia la Tour Eiffel o la tazza del cesso, l’importante è che si vedano le sfarzose virtù.

Che la seduzione femminile nasca e si alimenti tra la ridondanza delle forme, è cosa risaputa da secoli e secoli. Le sirene che incantarono Ulisse saranno state pure intonate ma, diciamoci la verità, se avessero indossato una muta, di certo non se le sarebbe filate nessuno.

Eppure, tocca rivedere qualche certezza. In fondo, quello dei social network è un mondo vero e proprio e per questo, nella sua biosfera, si consumano mille contraddizioni. Basti pensare che Naike Rivelli, figlia di Ornella Muti, tiene a far sapere che non è una troia, mentre mostra su twitter tutte le sue “doti artistiche”; tiene, sempre sottolineando la sua purezza e santità, ad illustrarci che la sua aiuola, vivida e fulgida come il più fecondo dei semenzai agricoli, è perfettamente recisa ma che, all’occorrenza, su richiesta esplicita del partner, potrebbe persuadersi a lasciare che la gramigna proliferasse incolta.

Donne, siete belle. Da qualsiasi angolazione e qualsiasi sia la luce ad illuminarvi. L’arte della seduzione è sottile, raffinata. È necessario che sia così, soprattutto se non vi accontentate di quei famosi 22 centimetri che potrebbero sollevare il mondo, per poi lasciarlo cadere inesorabilmente nel vuoto. Dare un’immagine di sé che corrisponda al proprio sé: questa l’arguzia.

Ce ne parla in letteratura Igino Ugo Tarchetti, nella sua opera “Fosca“. Giorgio, militare di carriera, dopo aver avuto una passionale liaison con la bella Clara, si innamora perdutamente della brutta (per sconsiderata magrezza), Fosca. Se ne innamora senza vederla. Neanche mezza tetta, giuro! Per il tramite del colonnello, comandante della guarnigione, presta a Fosca alcuni libri. Galeotto fu Rousseau e la Nouvelle Eloise. Furono i solchi scavati dalla punta di mina di Fosca, sulle pagine ingiallite dal tempo, che sottolineavano passi che ne denunciano ‘l’intelligenza robusta, fina, perspicace’, in sostanza l’ingegno, ma anche il tenore più profondo della sua infelicità, che accese il desiderio di Giorgio. Isterica, di rara bruttezza affetta da una grave malattia che le scavava la carne mettendo in risalto la spigolosità delle ossa, ma allo stesso tempo dotata di un’acuta sensibilità e di una raffinata cultura. Giorgio presto inizia a subirne l’oscuro fascino, tanto da non riuscire ad evitarla, né a staccarsene. Fosca, alla fine del romanzo, muore logorata dalla malattia in seguito ad una morbosa nottata trascorsa con l’amato, mentre Giorgio, sfidato a duello dal colonnello, testimone di questo amore morboso ed indissolubile, è colto da un malore e si rende conto di essere vittima della stessa malattia della donna.

La nostra società ha fatto della donna un puro strumento di piacere. Ogni donna non è considerata oggi mai che sotto questo punto di vista. Esse stesse mostrano di non considerarsi sotto un aspetto diverso. Non si pretende da esse né ingegno, né virtù, né amicizia, non si chiede che dell’amore e del piacere. Apprezzamento triste e degradante che esse tuttavia non temono, o non comprendono”. Così parlava di noi Tarchetti, nella seconda metà dell’Ottocento. Sottovalutiamo la potenza delle corrispondenze di amorosi sensi e preferiamo nutrirci dell’immagine che attrae e fomenta pulsioni forti, che bruciano e che sono destinate a consumarsi, presto. Si sottovaluta la trascendente delicatezza, l’ingegnosità delle nostre cellule celebrali capaci di intessere fili robusti e resistenti. Troppo si vede e poco s’immagina. Per i maschietti questo è un gran peccato. Giorgio descrive il suo amore per Fosca così: «Quella infermità terribile per cui aveva provato tanto orrore mi aveva colpito in quell’istante; la malattia di Fosca si era trasfusa in me: io avevo conseguito in quel momento la triste eredità del mio fallo e del mio amore».

Meditiamo, donne. Meditiamo.

Laura Naimoli per malacopia